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La letteratura italiana di primo novecento 

La letteratura italiana del 900

Durante il primo novecento, D'Annunzio mantenne ancora un ruolo fondamentale: oltre che come poeta-vate, egli si presentava anche come maestro di comportamento.
Crescevano, però, durante questo periodo, gruppi di giovani intellettuali che si opponevano alle generazioni passate battendosi per un rinnovamento della letteratura, e della società italiana, cercando di superare quel distacco tra la letteratura e la vita nazionale. Tra questi gruppi vi erano i crepuscolari e i futuristi.
Questi diedero vita a riviste fiorentine come: Hermes, Il Regno, Il Leonardo e La Voce.
Contro le mitologie decadentiste e, soprattutto, dannunziane, cominciò la sua polemica anche Benedetto Croce. 
In Russia, invece, Majakovskij accolse il futurismo e legò la sperimentazione di nuove poesie alle istanze rivoluzionarie della società in cui viveva, evitando quel gioco formale in cui il futurismo italiano resterà invischiato.
In Germania Thomas Mann con I Buddenbrook, e altre opere successive, rappresentava il conflitto tra i valori borghesi e quella estraneità sulla quale poggiava il decadentismo, il dissidio dell'artista che difronte al mondo borghese sente la propria diversità come privilegio e nel contempo come condanna.
In Francia le precedenti esperienze poetiche assieme al gusto dell'introspezione convergevano tutte nelle opere di Marcel Proust;
mentre in Inghilterra James Joyce introdusse il monologo interiore e portò alla luce i meandri del subconscio, scardinando le tradizionali leggi del linguaggio.
La matrice simbolistica dell'arte del Novecento si concreta in Francia e in Europa, nel breve spazio di un ventennio, portando sempre di più all'esasperazione il conflitto tra realtà e surrealtà.
Nel 1907 Picasso dipinge Les demoiselles d'Avignon: dando vita così al cubismo. Assieme a Picasso si trova Braque e poi il gruppo si allarga fino a Léger, Gris, Gleizes. 
In particolare la Germania di Guglielmo II sembra presentire la tragedia storica che di li a poco si abbatterà sull'Europa: la prima guerra mondiale. L'espressionismo sarà il movimento che raccoglierà le più profonde inquietudini della società con l'imperativo morale di purificarla.

Il Futurismo

Futurismo

Il futurismo è un movimento artistico-letterario d'avanguardia che si basava sul rifiuto di tutte le forme artistiche tradizionali.
Esso coinvolse tutte le forme artistiche e volle essere soprattutto un nuovo costume rivoluzionario di vita individuale e collettiva; per questo si diffuse in vari modi in tutta Europa e finì per anticipare l'ideologia fascista.
I manifesti futuristi riguardanti i vari settori artistici sono almeno una decina, ma tra i più importanti vi è quello di Filippo Tommaso Marinetti pubblicato su Le Figaro nel 1909.
I Futuristi portavano la propria attenzione alle componenti della nuova realtà industriale come la macchina, le grandi masse operaie, le città moderne, le metropoli e la velocità. 
Risultò, inoltre, inadeguata la vecchia concezione della cultura come riflessione e comprensione razionale della realtà; così le contrapposero l'idea di una cultura incentrata sul bisogno di agire e su un progetto artistico capace di rappresentare il dinamismo.
Il movimento  sosteneva, anche, la positività assoluta del gesto ribelle e libertario, dell'eroismo fine a se stesso, del disprezzo dei sentimenti, della guerra come "sola igiene del mondo". Tra i vari successivi manifesti che ribadivano e ampliavano l'intento provocatorio del primo, il più interessante per l'elaborazione culturale e le conseguenze fu il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), che propose la distruzione di tutti i nessi sintattici per lasciare le "parole in libertà" e realizzare l'espressione dell'"immaginazione senza fili", fondata su un uso estremo dell'analogia e dell'onomatopea per restituire sulla pagina l'effetto bruto e immediato del rumore.
Le posizioni del futurismo italiano in ambito politico trovarono espressione sulla rivista "Lacerba", furono meno originali e rimasero legate a forme di nazionalismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale i futuristi si schierarono decisamente a favore dell'interventismo e parecchi di loro partirono volontari.

Aldo Palazzeschi

Aldo Palazzeschi

Aldo Palazzeschi, nome d’arte di Aldo Giurlani, nasce a Firenze nel 1885 e abbandonati gli studi di ragioneria iniziati presso la Scuola commerciale Ca’ Foscari di Venezia, pubblica le sue prime opere letterarie: le raccolte poetiche I cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907) e Poemi (1909) in pieno gusto crepuscolare.

Oltre al crepuscolare Moretti, conosce alcuni esponenti della corrente futurista durante il suo soggiorno a Milano quali Boccioni e Marinetti, divenendo una sorta di intermediario tra la corrente del futurismo e quella del crepuscolarismo, non collocandosi mai definitivamente all’interno di uno dei due movimenti artistici, ma mantenendo sempre un atteggiamento eclettico, l’atteggiamento dell’intellettuale, dell’artista che esplora ogni forma d’arte e le sue varie manifestazioni.

Padre del gioco libero e dissacratore, dell’irrisione , incarna pienamente la figura del poeta che si vuole divertire e che disprezza con una spiccata ironia e con fare sornione i valori borghesi del tempo, assumendo posizioni che si potrebbero definire quasi nichilistiche ₁.

Dopo un breve periodo trascorso a Parigi durante il quale entra a contatto con i più svariati artisti a partire da Apollinaire fino a Picasso, Braque, Matisse, decide di ritornare a Firenze nel 1913. In questi anni si verifica la “rottura” con il futurismo e la conseguente “conversione” al marxismo che determinerà l’approdo all’anti-interventismo e successivamente all’antifascismo.

Al 1920 risale il romanzo politico Due imperi..mancati, all’anno seguente la raccolta di novelle Il Re bello che si rifà al genere fantastico di Piramide, terzo romanzo della trilogia dei Romanzi straordinari di cui facevano parte anche Riflessi e Il codice di Perelà.

La sua opera in prosa più fortunata è però il romanzo intitolato Le Sorelle Materassi risalente al 1934.

Nel 1941 si trasferisce a Roma dove a seguito di un periodo di sterilità creativa, vi è il ritorno al fantastico .

Muore nella stessa città nel 1974.

Le Sorelle Materassi è un romanzo del Palazzeschi pubblicato nel 1934.  

In linea con gli intenti parodici, irrisori e dissacratori tipici della scrittura di Palazzeschi, l’opera narra le vicende delle due sorelle Carolina e Teresa Materassi. Queste in ossequio alla figura archetipa del borghese ossessionato dal guadagno, dalla ricchezza, hanno trascorso la maggior parte della loro esistenza proiettando le proprie azioni solo in vista del guadagno derivante dall’attività lavorativa di sarte, privandosi di amori e soddisfazioni, conducendo quindi la classica vita borghese grigia e monotona. Dimensione questa che viene disgregata dall’arrivo di una delle sorelle, Giselda, a seguito di un matrimonio fallito e soprattutto del nipote Remo, figlio dell’ormai defunta sorella Augusta. Le due sorelle vengono travolte dall’irrequieta personalità di Remo che dopo aver ottenuto la licenza elementare grazie all’aiuto delle zie, inizia a dissipare il patrimonio accumulato da queste per dare libero sfogo ad un prepotente superomismo che lo vedrà trasformarsi progressivamente in un dandy di provincia.

Remo incontra una ricca ereditiera americana di nome Peggy con la quale decide di sposarsi, abbandonando il loculo familiare delle due zie che continueranno a nutrire una certa ammirazione per il loro amato nipote nonostante siano oramai costrette a cucire biancheria per i contadini.

L’autore in questa fortunatissima opera narrativa mette in luce contemporaneamente la triste e chiusa realtà della vita provinciale e l’aridità etica di Remo e parallelamente il cieco assoggettamento volontario da parte delle due zie al giovane dandy.

Il romanzo è quindi tutto pervaso da forti tinte caricaturali, grottesche e ironiche che rivelano l’assurdità del mondo borghese, divenendo quindi una vera e propria sottile critica a tutta una serie di valori che in quest’epoca sono entrati in piena crisi e non trovano più ragione d’esistere.

Il crepuscolarismo

Il crepuscolarismo

Nel clima culturale dell’Italia giolittiana di inizio

Novecento si collocano in posizione antitetica alla

corrente futurista una serie di intellettuali, i quali

sebbene non facenti parte di un vero e proprio

movimento letterario, vengono identificati sotto

una denominazione unica in quanto le tematiche

affrontate e le forme stilistiche adottate risultano

affini tra i cosiddetti poeti crepuscolari. 

La definizione di “crepuscolari” comparve per la prima volta sulla testata giornalistica “La Stampa” nel 1909 ad opera di G.A. Borgese. La scelta di questo appellativo avvenne sulla base di quanto Borgese aveva scorso nella poesia di questi nuovi autori che danno voce ad <<una gloriosa poesia che si spegne>>. 
Ciò che accomuna i poeti crepuscolari ai futuristi è il rifiuto degli schemi metrici e dei temi tipici della tradizione, inoltre anche nel caso dei crepuscolari, così come per i futuristi, la loro poetica nasce dal bisogno di rinnovamento, la cui origine va’ cercata nella profonda crisi dei valori tradizionali borghesi e nel progressivo tramontare della cultura positivista. Questa poesia prende vita come reazione al dannunzianesimo, prediligendo la narrazione delle povere cose, dei fatti senza importanza, del mondo più banale, della monotona, noiosa e grigia quotidianità. Nonostante i crepuscolari apparentemente sembrino distaccarsi dalla poetica dannunziana, si può notare una forte influenza dello stesso D’Annunzio e delle correnti sviluppatesi nei decenni precedenti quali simbolismo e decadentismo.

La letteratura di primo Novecento è sottoposta ad una serie di stravolgimenti, innanzitutto il genere letterario del romanzo cade in disuso, escludendo però i casi di Svevo e Pirandello e i romanzi scritti per il consumo. Alla narrazione in prosa, gli scrittori di quest’epoca prediligono la poesia in versi liberi e svincolata dalla metrica tradizionale, generando in questo modo la nuova forma letteraria del frammento: una composizione breve e secca che richiama nelle emozioni che suscita la poesia. 
I crepuscolari sulla scorta dei poeti decadenti e su quanto afferma Croce nel suo scritto “Estetica” tentano di comporre una poesia pura che ha come obiettivo principale la narrazione della soggettività del poeta e della condizione esistenziale dell’uomo della contemporaneità analizzando il suo dilemmatico rapporto con la realtà. 

Come già lasciato intendere sopra, i crepuscolari non costituiscono un gruppo, un movimento letterario unico, essi sono semplicemente animati da un intento comune che consiste nell’analisi e interpretazione della crisi dei valori poetici nel mondo borghese. La poesia infatti secondo Gozzano non ha più motivo di esistere in un contesto degradato e degradante come quello in cui si esiste alla fine dei valori borghesi. Gozzano considera l’arte come artificio e contraddittoriamente priva la poesia del suo compito di creare paradisi artificiali o mondi alternativi ma contemporaneamente la reputa come valida alternativa per sfuggire alla negatività del mondo a lui contemporaneo, rendendosi però conto che è impossibile evitare il grigiore della quotidianità. 
Se Gozzano reinterpreta il compito della poesia e il suo valore nella società di inizio Novecento, e crea un nuovo stile fatto di accostamenti tra parole dimesse e prosaiche accanto a parole della tradizione trecentesca, il tutto pervaso da una forte energia demistificante e corrosiva, Corrazzini nega alle sue parole il significato poetico. Corrazini mette a nudo la propria sofferenza e la propria solitudine esistenziale dando voce al poeta malato che è in lui lasciando parlare la sua anima. Egli stesso afferma che questa scrittura dell’anima non crea un’opera poetica, egli quindi nega il significato di poesia a quanto scrive. 

Accanto alle figure di Gozzano e Corradini, compare poi quella di Moretti. Questi predilige le atmosfere di interni chiusi e asfissianti, la noia causata dalla monotonia della quotidianità e sceglie i luoghi di provincia come sfondo delle sue narrazioni in versi. Tramite l’adozione di un linguaggio molto vicino a quello parlato, Moretti mette in luce l’esaurimento della forma poetica.
 

I vociani

I vociani

Tra le riviste fondate durante i primi decenni del XX secolo va’ menzionata “La Voce”, fondata nel 1908 da Papini e Prezzolini. Diversi intellettuali collaborarono alla stesura di testi per la rivista fiorentina vengono non a caso indicati con il termine “vociani”.  La loro è una letteratura che si lascia alle spalle la tradizione accademica e che si concentra piuttosto delle inquietudini e le grandi questioni esistenziali dell’uomo contemporaneo. Il verso libero diviene espressione emblematica di una necessità di cambiamento e della ricerca esistenziale, autonoma e libera di cui l’io sente bisogno. Essi non dissimilmente dai crepuscolari si rifanno alla corrente decadente, rifiutando però i concetti di edonismo ed estetismo e adottandone più che altro l’aspetto simbolico-analogico. I vociani contrappongono alla negativa realtà la ricerca di valori spirituali e morali che dichiarano apertamente l’esigenza di questi scrittori di un forte impegno civile. 
Sbarbaro ad esempio proietta la sua sofferenza e aridità esistenziale nel paesaggio ligure, sottolineando l’impossibilità alla gioia quanto alla sofferenza in virtù di una sorta di apatia e di estraneità rispetto ad un mondo fatto di solitudine e di alienazione dal quale è impossibile scappare. 
Clemente Rebora è invece alla ricerca della verità, di certezze che troverà poi a seguito del suo avvicinamento alla religione e alla sua conversione al cattolicesimo. Rebora narra di un rapporto tormentato con la realtà frenetica della città che attribuisca un senso, un valore all’esistenza. Egli inoltre fa una critica sferzante del progresso, della società capitalistica e industriale e analizzando le condizioni umane giunge alla constatazione della condizione di solitudine a cui è sottoposto l’uomo e soprattutto il poeta.
Tra i vociani va’ annoverata anche la figura di Michelstaedter che denuncia l’inautenticità dell’esistenza ponendo come unica possibilità di scelta la morte.
Le sue poesie risultano particolarmente significative poiché esprimono la crisi di valori e di certezze del primo XX secolo.
Infine vi è Campana, poeta affetto da numerosi disturbi psichici che gli sono costati lunghi periodi di reclusione in ospedali psichiatrici. Tralasciando gli elementi biografici, di questo magnifico autore “vociano” bisogna evidenziare il suo approdo al lirismo ottocentesco e al vitalismo nietzschiano con il completo superamento delle atmosfere dannunziane o crepuscolari. Campana da vita a veri e propri mondi onirici che alterano e distorcono la realtà per andare oltre le convenzioni borghesi, cogliendo gli aspetti più misteriosi, magici e profondi.

Benedetto Croce

Benedetto Croce

Intervento trattato di paceBenedetto Croce
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Sin dai primi anni del secolo ha iniziato la propria attività che andava dalla filosofia alla storiografia, dall'estetica alla critica.
Egli elaborò un sistema filosofico di laica razionalità; intraprese un impegno culturale e politico, senza riposo, di una disciplina intellettuale vista, anzitutto, come un alto esempio etico.
Il Croce critico letterario, specie quello di Poesia e non poesia, esercitò molta influenza, quasi una "dittatura intellettuale" sulla cultura italiana, ma ricevette anche critiche: ad esempio furono ritenuti scorretti i suoi “pseudoconcetti", poiché non presentati come opinione personale ma come veri canoni estetici, varie tesi, come la sua opposizione alle novità letterarie europee, esemplificate dalle stroncature verso gran parte dell'opera di Gabriele D'AnnunzioGiovanni Pascoli, del crepuscolarismo e di Giacomo Leopardi: di quest'ultimo salvò, nei Canti, gli idilli e i canti pisano-recanatesi.

Dino Campana

Dino Campana

Dino Campana  è nato  nel 1885 a Marradi, un paese in provincia di Firenze. Egli ha frequentato la scuola di Faenza e quella di Torino. Si è iscritto alla facoltà di Chimica, ma non ha mai concluso il suo percorso universitario. Con il passare degli anni, Campana inizia a perdere la lucidità, probabilmente a causa di diversi problemi familiari. Dopo questi segni di squilibrio mentale, la sua vita  cambia completamente; egli inizia a condurre una vita da girovago, finendo per venire arrestato diverse volte e successivamente internato in manicomio.

Negli anni che vanno dal 1913 al 1918, Campana ha viaggiato molto: è stato in Italia, Russia e Sud America. Egli viaggia in una condizione di estrema povertà, cercando più volte di migliorare la sua situazione, lavorando come pianista in un bordello, pompiere e suonatore di Triangolo.

Nel 1913 Campana presenta un libro di poesie ai direttori della rivista << Lacerba>>. Il manoscritto viene smarrito e Campana scrive nuovamente il libro, che pubblica a sue spese nel 1914. Il titolo del libro è “Canti Orfici”.

Dal 1916 al 1917 vive una relazione molto tormentata con la scrittrice Sibilla Aleramo, ma nel 1918 viene rinchiuso definitivamente in manicomio.

“Canti Orfici”

I “Canti orfici” sono un prosimetro, una raccolta di testi in prosa e in versi. Il libro è composto da ventidue  componimenti, divisi in quattro sezioni: “Notte”, “Notturni”, “La Verna”, “Varie e Frammenti”.

I testi in prosa riprendono il modello particolare del poema in prosa e sono caratterizzati da  artifici ritmici tipici del verso.

La prima parte del titolo “Canti” ci rimanda alla tradizione lirica italiana (i Canti di Leopardi), mentre la seconda parte ci porta alla concezione di una poesia mistica e rivelatrice.

I “Canti Orfici” sembrano essere apparentemente un libro frammentato, ma in realtà alla base vi è una rigida coerenza strutturale. La raccolta può essere considerata a tutti gli effetti un poema unitario, in quanto è caratterizzata da molteplici corrispondenze interne. 

L’elemento che unisce poesia e prosa è la matrice orfica,che per Campana rappresenta l’aspirazione ad una forma di poesia totale e assoluta, che è in grado di  descrivere e ricreare la realtà esterna.

Una delle caratteristiche principali della raccolta è l’atmosfera onirica. La poesia di Campana presenta molteplici rimandi al tardo decadentismo europeo, tra questi ricordiamo la chimera, le prostitute e le atmosfere degradate. Il poeta non deve essere visto come un esponente minore della poesia decadente, perché è in grado di dare ai temi decadenti nuove sfumature. Egli si avvale di una grande potenza stilistica ed è in grado di creare numerose correlazioni simboliche.

Il poeta si contraddistingue per l’uso della ripetizione, che aumenta la densità di significato.

Il piano visivo tende sempre al simbolo, come ad esempio la rappresentazione della donna che diviene una metafora, in quanto la donna, seduta sul poeta, diviene un’antica statua-colonna, la ‘cariatide’, che sostiene un cielo cupo e al contempo stupefacente.È riconoscibile l’influenza della filosofia di Friedrich Nietzsche in cui l’incontro della donna diviene un momento di vitalità estrema. Viene inoltre affrontato un tema tipico nietzschiano, la leggerezza, il cui significato è legato alla serenità e alla felicità.In questo stesso passo sono riconoscibili altri temi classici della filosofia di Nietzsche: ‘la morte di Dio’, il Superuomo e l’eterno ritorno; fattore importante, questo, in quanto Campana attinge ai testi di Nietzsche direttamente il lingua tedesca senza l’influenza dannunziana in opere come “ le vergini delle rocce” o “Il Piacere.”

La notte è un tema fondamentale dei Canti orfici, in quanto rappresenta per il poeta “la madre di tutte le forme di esistenza” riconducibile anche al mito che fonde passato e presente.L’elemento femminile nei Canti orfici incarna un duplice ruolo, in quanto il poeta si sente estasiato sia alla presenza che all’assenza della donna; dunque, ella diviene portatrice di piacere e insieme di dolore. Ciononostante non solo la figura femminile sarà portatrice di un’ambiguità semantica, ma tutta l’avventura di Campana si baserà sulla compresenza di gioia e di tragedia.Il viaggio è il motore tematico di molti testi della raccolta; difatti, l’io lirico si trova in una condizione itinerante in cui gli avvenimenti sono collegati a una dimensione simbolica complessa. Il viaggio è infatti fondamentale nella poetica di Campana in quanto assume un ruolo anche a livello stilistico con una tecnica analoga a quella musicale della fuga.La poesia stessa è un ulteriore tema dei Canti, in cui il poeta affida alla figura di Orfeo la narrazione della storia personale del poeta.

La critica è variegata e controversa rispetto al lavoro poetico di Campana: secondo alcuni, egli incarna alla perfezione la tipologia di poeta “maledetto” e “pazzo”, secondo alcuni critici invece, rappresenta la figura di un intellettuale atipico e non professionale il cui lavoro risulta primitivo e poco curato.Bisogna però riconoscere la ricca presenza di alcuni modelli letterari: oltre al già citato Nietzsche, troviamo rimandi in Charles Baudelaire, Walt Whitman, Arthur Rimbaud, il simbolismo di Stephane Mallarmé, ma anche la presenza di letterari italiani come Dante e il suo Stilnovo, Carducci, Pascoli, e D’Annunzio con Alcyone.

Italo Svevo

Italo Svevo

Ettore Schmitz, pseudonimo Italo Svevo, nacque a Trieste nel 1861; compì gli studi medi in Baviera e a diciotto anni si iscrisse all'istituto superiore di commercio a Trieste.
Nel 1880 si impiegò in una banca dove lavorerà per circa venti anni, coltivando intanto la sua formazione letteraria con la lettura di classici tedeschi, italiani, francesi e sviluppando un notevole interesse per Schopenhauer, Nietzsche e i grandi narratori realisti come Balzac, Flaubert e Maupassant.
Nel 1892 pubblicò, con lo pseudonimo di Italo Svevo, Una Vita , 1898 Senilità e nel 1905 ebbe inizio la frequentazione con il ben presto grande amico James Joyce, che farà conoscere nel 1925 La coscienza di Zeno, pubblicata nel 1923, a italianisti importanti come B. Cremieux e Valéry Larbaud.
Quest’ultimi gli dedicarono scritti e lo proclamarono come rappresentante della letteratura e della coscienza contemporanea.
In entrambi i primi romanzi tanti elementi si richiamano ai temi della narrativa naturalistica e veristica, ma la novità, in Svevo, sta nell'attenzione che pone al rapporto personaggio-realtà e alla falsità che vi è in tale rapporto. Infatti sia Alfonso Nitti, che Emilio Brentani, si autoingannano, perché incapaci di affrontare la realtà, mistificano la propria sconfitta con una serie di atteggiamenti psicologici il cui complesso meccanismo Svevo man mano si preoccupa a smontare.
Ad averla sempre vinta sarà la vita, ambigua e imprevedibile, contro la quale niente valgono gli schemi dell’autoinganno.
Nel 1928 muore per un incidente automobilistico.

  • Una vita

Il primo romanzo di Svevo fu pubblicato nel 1892, sotto il nome Una Vita. 
Alle origini il romanzo venne presentato all'editore Treves con il titolo Un inetto, in seguito Svevo fu invitato dallo stesso Treves a modificare il titolo del romanzo in quello definitivo. Tuttavia l'editore rifiutò di pubblicare l'opera, che fu alla fine stampata dall'editore Vram. Il romanzo presenta nello schema una storia tardoverista, configurandosi come racconto di un vinto, cioè di un uomo sconfitto dalla vita. Ma rispetto al romanzo naturalista è evidente lo scarto: Alfonso è sconfitto non da cause esterne, sociali, ma interiori, proprie del suo modo di essere. Il protagonista incarna la figura dell'inetto, cioè di un uomo caratterizzato non da un'incapacità generica, ma da una volontà precisa di rifiutare le leggi sociali e la logica della lotta per la vita.
La trama del romanzo parla di Alfonso Nitti che, trasferitosi dalla campagna a Trieste, trova un impiego in banca, ma non riesce a stabilire contatti umani e vede le sue ambizioni economiche e letterarie frustrate. Vive una relazione con Annetta Maller, figlia del proprietario della banca. Sposando Annetta, potrebbe veder realizzate le proprie ambizioni, ma Alfonso, preso dall'inettitudine, fugge al paese natale, dove trova la madre gravemente ammalata. In seguito alla morte della madre è convinto di aver trovato finalmente il suo modus vivendi, che consiste nel dominare le passioni. In realtà il protagonista è ben presto ripreso da queste ultime. Infatti ritornato a Trieste, rivede Annetta e le scrive una lettera, questa però è promessa sposa a Macario, giovane appassionato di letteratura conosciuto in casa Maller. Annetta non risponderà a questa lettera. Nel frattempo il fratello di Annetta sfida a duello Alfonso. Il protagonista preferisce suicidarsi con il gas, conscio del proprio fallimento.​

  • Senilità

Il secondo romanzo pubblicato sempre nel tardo ottocento è Senilità (1898).
Il titolo ha significato metaforico: appunto "senilità" indica l'incapacità di agire che è propria degli anziani, ma nel romanzo qualifica in tal modo il protagonista che è abbastanza giovane.
Nel romanzo si parla di Emilio Brentani, un impiegato, che vive la sua vita in maniera monotona e mediocre.
Proprio nell’età matura, quando la sua vita sembrerebbe definitivamente segnata, incontra e perde la testa per Angiolina.
La relazione con quest'ultima inizia in maniera piacevole ma più in avanti si dimostra sempre più intensa di angosce e ansia, facendolo sentire frustrato anche sul campo relazionale.
Anche la sorella più giovane di lui non sfugge a tale destino.
Anche lei frustrata nella vita intraprenderà una situazione amorosa fallimentare che la porterà ad uno stato di squilibrio che sarà causa della sua morte.
La vita di Emilio Brentani si riduce dunque a nient'altro che inutilità, solitudine e noia.

  • La coscienza di Zeno

Gli schemi narrativi nei primi due romanzi erano del tutto secondari rispetto al dato psicologico, infatti nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno(1923), saranno abbandonati.
La trama parla di Zeno Cosini, stato in cura da uno psicanalista che, su consiglio del medico, inizia stendere il diario della propria vita, psicoanalizzando se stesso. 
La coscienza di Zeno non è altro infatti che un lungo diario fatto con scrupolosa e sottile, ma anche amara e soprattutto ironica, introspezione. Sono scrupolosamente segnate le date, le tappe che quasi casualmente lo hanno portato al matrimonio e quelle che, con altrettanta apparente casualità, lo hanno spinto ad una relazione adulterina; sono evocate le circostanze per le quali Zeno si associa in un'impresa che poi fallirà al cognato amico-nemico Guido e quelle per cui quest'ultimo arriva, per sbaglio, al suicidio. Ma maggiormente analizzata è la malattia di Zeno, la quale, come una bestia in agguato, spunta ad assalirlo di volta in volta in modi diversi: , la definisce egli stesso come malattia immaginaria e malattia di comodo, ma tanto presente e concreta che riesce a condizionargli tutta la vita.
L'esistenza di Zeno Cosini è impedita in realtà dai mali della sua stessa coscienza, dall'eccessivo compiacimento introspettivo che egli sfrutta però per poter continuare a tergiversare e a crearsi degli alibi. Il diario si conclude con la descrizione dell'inizio della prima guerra mondiale e con le considerazioni che Zeno, allargando finalmente il suo campo di indagine finora limitato ad una morbosa auscultazione, fa sui tempi e sull'umanità.
Nel romanzo l'accaduto o l'atteggiamento psicologico non si presentano univoci, ma poliedrici, sfaccettati,  con una molteplicità di prospettive e di valutazioni che si intersecano e sono dovute alle progressive modificazioni che quel ricordo ha assunto alla luce dei ripensamenti e delle esperienze posteriori.
Abbiamo come conseguenza il dissolversi del personaggio: il narratore tradizionale ce lo presentava oggettivamente, come una realtà autonoma da inventariare e descrivere, ora invece questa realtà non solo la vediamo nel suo fluire, nel suo farsi, ma non assume una sua forma definitiva in quanto l'accumulo dei ricordi e delle luci a posteriori proiettate su di essa non ne permettono la cristallizzazione.
Il narratore della Coscienza viene recepito dunque come un narratore inattendibile, di cui non ci si può fidare.
L'autobiografia in essa contenuta è tutto un gigantesco tentativo di autogiustificazione di Zeno, che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa.
Le menzogne però non sono intenzionali, sono autoinganni determinati da processi profondi e inconsapevoli.
Per tutto il romanzo ogni gesto, ogni affermazione di Zeno, sia dello Zeno personaggio che agisce nel racconto, sia dello Zeno che narra a distanza di anni, rivela in trasparenza un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse o addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. Per cui la «coscienza» di Zeno appare in primo luogo come una cattiva coscienza, una coscienza falsa, come quella degli eroi dei romanzi precedenti; tanto che il titolo del romanzo può anche essere preso in accezione antifrastica e venir letto piuttosto, come è stato suggerito, L'incoscienza di Zeno. Anche qui, poi, la realtà oggettiva dei fatti, che s'intravede dietro le mistificazioni dello Zeno narratore e personaggio, si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni da lui adottate; per cui Zeno appare avvolto da un alone di ironia "oggettiva" al pari del protagonista di Senilità.
La coscienza di Zeno approfondisce, con questa nuova tecnica narrativa, la linea di ricerca psicologica già iniziata nei due romanzi precedenti. Anche Zeno Cosini, (come Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) è un abulico, segnato da uno stesso marchio di inettitudine di fronte alla vita, ma la sua dimensione psicologica è più ricca in quanto egli ha consapevolezza lucida e della sua malattia morale e del complesso meccanismo delle giustificazioni e degli alibi ai quali è solito ricorrere. 
Con Zeno Cosini, Svevo approfondisce la sua diagnosi della crisi dell'uomo contemporaneo e, da tale analisi, emerge una condizione di alienazione dell'uomo quale risulta incapace di avviare un rapporto cordiale e operoso con la realtà che lo circonda; è un vinto ma senza grandezza perché, appunto, la malattia della coscienza e l'inettitudine escludono la lotta.
Questa condizione però, per Svevo non è connaturata, costituzionale per l'uomo, ma dovuta a precise ragioni storiche. Proprio la spirale produttivistica di una società come l'attuale, ha ridotto così l'uomo; Svevo condanna la società capitalistica borghese, ma non ne trova un'alternativa sul piano effettuale storico.
L'unica alternativa è sul piano individuale, non su quello storico sociale, è nella acquisizione della coscienza, nella consapevolezza della condizione umana, delle menzogne convenzionali acquisite a tal punto da farci ritenere validi gli alibi coi quali mascheriamo le nostre fughe dalla realtà.
Il che significa che, l'amarezza e la previsione della catastrofe non sono le uniche componenti dell'opera di Svevo, non vanno isolate ma integrate con altre componenti quali appunto il superiore atteggiamento di chi alla fine ha compreso, ha capito il meccanismo ed esprime questa consapevolezza col sorriso di chi ormai non ha più illusioni.

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello nacque a Girgenti (Agrigento) il 28 giugno del 1867 in una famiglia borghese di condizione agiata: il padre aveva in affitto diverse miniere di zolfo. 
Si iscrisse dapprima all’università di Palermo, poi alla Facoltà di Lettere di Roma che fu costretto a lasciare a causa di un diverbio con un suo docente, trasferendosi in Germania e iniziando a frequentare l’Università di Bonn presso la quale si laureerà nel 1891 in filologia romanza. 
Trascorrendo parte degli anni giovanili in Germania entrò a stretto contatto con la cultura tedesca e mostrò particolare interesse per la stagione romantica che rivestì un peso non trascurabile nella sua teoria dell’umorismo.

Tornato in Italia nel 1892 si stabilì a Roma dove conobbe intellettuali come Flores e Capuana. Al 1983 risale la scrittura de “L’Esclusa” , all’anno successivo invece la pubblicazione della serie di racconti “Amori senza amore”. Sempre nel 1984 sposò Maria Antonietta Portulano. 
Dal 1897 esercitò la professione di insegnante, prima in veste di supplente e successivamente di docente di ruolo all’Istituto Superiore di Magistero di Roma. 

Particolarmente rilevante per la produzione narrativa pirandelliana è l’evento che lo vide coinvolto nel 1903, anno in cui il crollo di una miniera di zolfo nella quale il padre aveva investito tutto il patrimonio familiare, nonché la dote della nuora, causò la declassazione sociale dalla borghesia benestante alla piccola borghesia con i suoi disagi economici e frustrazioni. Questo catastrofico accidente determinò inoltre il peggioramento delle condizioni psichiche della moglie di Pirandello, Maria Antonietta, nella quale si acuì ulteriormente la condizione problematica a seguito dell’imprigionamento del figlio in guerra ad opera del nemico austriaco; Pirandello si vide allora costretto a farla ricoverare in una struttura di igiene mentale. 
Fu proprio in questi anni, a partire dall’avvenimento del 1903, che Pirandello iniziò ad elaborare le sue prime teorie sulla trappola familiare e sociale, divenendo progressivamente vittima dell’insofferenza originata dal meccanismo sociale alienante che porta l’uomo a dimenarsi inutilmente per la riconquista della spontaneità e dell’immediatezza della vita ormai perdute con l’affermazione dei valori borghesi. 

Tra 1904 e 1915 la produzione novellistica e poetica si intensificò notevolmente per poi lasciare spazio a partire dal 1915 alla produzione teatrale. Le opere di Pirandello vennero messe in scena inizialmente dalla compagnia di Nino Martoglio e successivamente di Marco Praga. 
Tra gli anni ’20 e ’30 la fama di cui godette Pirandello per le sue rappresentazioni teatrali fu mondiale, al punto che nel 1925 lasciò la cattedra di letteratura per girare in tournée con la propria troupe di attori.

Nel 1924, sebbene la sua famiglia fosse di tradizione garibaldina e risorgimentale, lo scrittore siciliano adeì al partito fascista, rendendosi però ben presto conto di come proprio il regime fascista fosse emblema della falsità del meccanismo sociale. 

Morì nel 1936 durante le riprese di un film tratto dal romanzo Uno, nessuno e centomila presso Cinecittà.

I nuclei tematici e la visione pirandelliana
La scrittura pirandelliana si fonda su alcuni nuclei tematici che vengono affrontati in tutte le due per in maniera quasi ossessiva. 
La visione del mondo di Pirandello affonda le sue radici nelle filosofie vitalistiche contemporanee di Bergson e Simmel, i quali sostengono che <<la realtà è tutta vita, essa è un continuo movimento vitale>>, è trasformazione perpetua da uno stato all’altro, è flusso incandescente e continuo da cui distaccandosi e assumendo una determinata forma si muore.

Secondo Pirandello noi siamo parte indistinta di questo continuo fluire che tendiamo ad abbandonare in favore dell’assunzione di una forma individuale unica tramite la cristallizzazione. L’uomo quindi sente questo bisogno di fissarsi in determinata realtà che egli stesso si attribuisce assumendo illusoriamente un’unica personalità che nasce dal modo soggettivo che ognuno di noi ha di guardare il mondo. 
Così come ognuno di noi attribuisce a sé stesso una personalità, la attribuiamo anche agli altri individui che a loro volta ne attribuiscono una a noi secondo il filtro soggettivo della loro visione della realtà. Quante sono le persone con cui intratteniamo delle relazioni sociali, tante sono le identità dateci. 
Ne consegue che ciascuna di queste forme assegnateci non sono altro che delle maschere sotto cui vi è un ininterrotto fluire in base al quale non si è mai quelli dell’attimo precedente e/o successivo. Sotto alle centinaia di maschere che l’uno indossa in parte inconsapevolmente non vi è nessuno.

La frantumazione dell’io e la sua origine 
I processi economico-sociali che caratterizzano l’epoca in cui vive Pirandello rendono ben chiari il perchè l’uomo versi in questa condizione di non-unità.
L’individuo si scopre multiforme, disgregato, frantumato per l’appunto, ed è proprio a partire dalla percezione di questa sua condizione che approda all’instabilità, alla perdita dei confini che divengono sempre più labili.
La realtà in cui vive lo scrittore siculo è caratterizzata dalla spersonalizzazione del lavoro che diviene meccanizzato e rende l’uomo solamente un piccolo ingranaggio del colosso produttivo industriale monopolistico. L’uomo comprende di non essere più homo faber, homo artifex che grazie alle sue doti intellettuali riusciva a dominare il mondo a proprio piacimento, l’uomo si scopre fragile ed impotente. 

La trappola sociale
Le maschere che ciascun uomo indossa, le forme che ognuno assume costituiscono con la loro non-autenticità una trappola, di cui l’uomo ha coscienza dapprima nell’ambito familiare e poi in quello sociale.
Due sono le alternative per sfuggire a questo meccanismo a cui involontariamente siamo sottoposti: l’immaginazione e la follia.
L’uomo può anche scegliere di assumere la posizione del forestiero di vita contemplando la realtà dall’esterno e trasformandosi di volta in volta senza ostruire il flusso vitale. 

Il relativismo conoscitivo 
Sulla base di quanto esplicato nei paragrafi precedenti, si può affermare che non esiste un’identità unica e che il mondo tutto è filtrato dalla lente soggettiva che ognuno di noi possiede, inoltre il mondo è -come noi esseri umani- continuo divenire, conseguentemente è impossibile fissare in degli schemi precisi la realtà polivalente e multiforme. 
Non esiste una verità oggettiva, a priori, al contrario esistono una serie infinita di verità soggettiva causa di incomprensioni tra gli individui; questi non riescono a comunicare e a comprendersi tramite il linguaggio poiché anche questo è sottoposto all’azione soggettivante che ci è propria nell’approccio al mondo.
L’umorismo pirandelliano 
Risale al 1908 l’opera saggistica intitolata “L’umorismo” , saggio fortemente significativo perchè viene affrontato e analizzato il concetto di umorismo per Pirandello stesso. 
L’autore parte dalla distinzione tra opera d’arte e opera umoristica, la prima nasce dal libero movimento interiore, dal sentimento puro privato della riflessione analitica, il secondo invece ha origine proprio dalla riflessione, dalla scomposizione del sentimento che si scopre ambivalente, da qui il concetto di sentimento del contrario. La riflessione umoristica coglie la molteplicità, la contraddittorietà del reale percependone caratteristiche antitetiche quali tragicità e comicità.

Le Novelle 
 Parlando di novelle non si può fare a meno di parlare della raccolta in cui queste vennero racchiuse con l’unico titolo “Novelle per un anno” , raccolta piuttosto importante perché proprio il suo corpus riflette la mancanza di organicità, di unità, di armonia che caratterizza la visione del mondo secondo Pirandello.
Le figure umane protagoniste di queste novelle sono avvilite, dolenti, emblema di una condizione esistenziale assoluta: il rapprendersi, il cristallizzarsi portano alla morte. Viene inoltre messo in luce il grottesco della vita che non è altro che un verificarsi di eventi casuali non regolati da nessun ordine, non esiste un rapporto causa-effetto che governi il mondo. I personaggi pirandelliani possono essere definiti come degli antieroi, figure grottesche, caricaturali, deformate, simili a marionette. 

I Romanzi 
L’esclusa
Il primo romanzo “L’esclusa” risalente al 1901 presenta una struttura e una materia naturalistica: il contesto sociale provinciale, chiuso, arcaico che rende incompresa una donna intelligente che cerca di emanciparsi e di sfuggire ai meccanismi sociali; la narrazione è in terza persona, condotta da una voce esterna e la focalizzazione è interna: tutto è filtrato dalla lente del personaggio che descrive gli eventi.
Ciò che differenzia Pirandello dal verista Verga è la scelta di fatti che non sono realmente consistenti, sono fatti che esistono solo nella visione soggettiva di alcuni personaggi.
Il fu Mattia pascal 
Il fu Mattia Pascal costituisce un’opera innovativa dal momento che viene adottato l’autore autodiegetico, è quindi il protagonista stesso a raccontare le proprie vicende tramite gli strumenti del diario o del memoriale, il punto di vista è quindi fortemente soggettivo, nonché inattendibile, parziale. Il fu Mattia insieme a Uno, nessuno e centomila presentano la forma narrativa del monologo ininterrotto di riflessioni, considerazioni, divagazioni sul tema dell’identità e della inesistenza di un’unità individuale. 

 

Il protagonista è un inetto perdigiorno che vive grazie al patrimonio ereditato dal padre, egli però viene frodato da un avido amministratore, la cui nipote si unirà poco dopo in matrimonio con Mattia. È proprio nella vita coniugale che Mattia percepisce per la prima volta la trappola e vi sfugge scappando lontano e approfittando dell’erroneo riconoscimento della sua figura in quella di un uomo suicida da parte della moglie e della suocera. Grazie ad una fruttuosa vincita al casinò di Montecarlo ha la possibilità di viaggiare e di affittare una casa il cui proprietario ha una nipote di cui Mattia, sotto le mentite spoglie di Adriano Meis, si innamora. Mattia però si sente escluso da quella realtà che tanto felicemente aveva abbandonato e decide di riassumere le vesti del bibliotecario sposato Mattia Pascal. Al suo ritorno la moglie si è però risposata e ha addirittura avuto una figlia, Mattia decide quindi assumere la posizione del forestiere di vita costretto dalle circostanze che lo hanno reso di nuovo senza identità. Mattia diversamente da quanto poi avverrà in Uno, nessuno e centomila per Vitangelo Moscarda, non assumerà la fisionomia dell’eroe-coscienza che aderisce panicamente al flusso vitale, bensì si limita ad affermare che lui è “il fu Mattia Pascal”.

Uno, nessuno e centomila
Vitangelo Moscarda è come Mattia Pascal un inetto che vive dei proventi della banca fondata dal padre ormai deceduto. Trascorre la sua vita nella totale inconsapevolezza delle mille forme che la società gli assegna. A partire dalla scoperta della visione che la moglie ha di lui, il Moscarda inizia a capire che ogni persona con cui ci interfacciamo crea per noi un’identità alla quale ci associa e per questo motivo non siamo effettivamente detentori di alcuna identità. Noi siamo sottoposti alla visione soggettiva di chi ci guarda e non possiamo sfuggirne. Appurato ciò Vitangelo Moscarda sceglie di compiere una serie di gesti folli e privi di senso, che non rispettano il suo modo di agire consuetudinario, riuscendo in battuta finale a sfuggire all’oppressiva trappola sociale. Egli, ancor più arditamente di come aveva fatto Pascal, si ritira completamente dalla vita sociale e sceglie di contemplarla dall’esterno e di fondersi panicamente con la natura, assumendo ora la forma della nuvola, ora quella della sedia, e così via.
Anche in questo caso il narratore è autodiegetico: Vitangelo Moscarda narra da sé gli eventi della sua vita e ci permette di entrare nella sua mente, dandoci accesso alle sue riflessioni e interpellandoci direttamente con precise formule, considerando noi lettori come suoi interlocutori.

Gli esordi teatrali: Sei personaggi in cerca di autore
Il teatro con cui si interfaccia Pirandello è ancora un teatro naturalistico che inscena il dramma borghese fatto di intrighi, adulteri e difficoltà economiche, tutto pervaso da un sentimentalismo esasperato che tenta di riprodurre fedelmente la realtà oggettiva dei fatti con rigore scientifico. Gli eventi narrati sono legati dal rapporto deterministico causa-effetto come voleva la tradizione naturalista e i personaggi sono a tutto tondo. Pirandello mal sopporta queste convenzioni e inizia a deostruire dall’interno il dramma borghese portando agli estremi i ruoli imposti dalla società borghese caricandoli grottescamente e smascherandoli.

Il linguaggio adottato è spezzato, convulso, ricco di interrogativi ed esclamazioni, è un linguaggio interrotto, affannoso che proietta all’esterno i pensieri così come si presentano nella mente.
Sei personaggi in cerca di autore è un’opera teatrale del 1921. 
Già il titolo costituisce la chiave di comprensione dell’opera non solo nella sua trama ma anche nel suo intento di critica al teatro stesso.
Pirandello oltre a voler decostruire il dramma borghese dall’interno, vuole mettere allo scoperto l’impossibilità di inscenare, se non addirittura di scrivere, un dramma dal carattere romantico per i suoi personaggi. Questi  non a caso cercano la loro forma, il loro ruolo chiedendo agli attori che stanno provando sul palcoscenico di inscenare il dramma della loro vita che l’autore non ha voluto scrivere. I sei personaggi di quello che, almeno teoricamente, doveva essere il dramma borghese cercano nella sublimazione artistica delle loro storie una sorta di liberazione da questa forma che altrimenti sono costretti a vivere per l’eternità.
Il confine tra realtà e finzione teatrale costituito dal sipario scompare e gli spettatori entrando in sala trovano una scena non allestita e il sipario alzato.
Soggetto dell’opera dovrebbero essere le vicende borghesi dei personaggi in pieno stile ottocentesco, ma soggetto dell’opera è invece la critica al teatro contemporaneo con la sua impossibilità di scrivere e di rappresentare il cosiddetto dragone borghese.
Tre motivi centrali della visione del mondo pirandelliana sono presenti in questo capolavoro metateatrale: 
L’impossibilità di comunicare a causa dell’interpretazione soggettiva a cui è sottoposto non solo il mondo ma anche il linguaggio.
Il rapporto verità-finzione secondo cui le persone reali non sono altro che costruzioni fittizie non differenti poi così tanto dagli attori teatrali, i quali risultano essere per certi versi addirittura più autentici.
Il conflitto vita-forma: vita come continuo fluire di stati in opposizione all’ostinata ed illusoria assunzione di un’unica forma da parte dell’uomo.

Sei personaggi in cerca di autore è un opera metateatrale perchè conduce la critica del teatro nel corso della rappresentazione teatrale stessa. 
 

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