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L'Ermetismo 

L'ermetismo

L’ermetismo, corrente letteraria sviluppatasi nel corso degli anni Trenta, si ispira alla lirica primonovencesca e, in particolare, all’utilizzo del verso libero e al tema della ricerca interiore e spirituale, temi affrontati da Giuseppe Ungaretti nella sua opera intitola “L’allegria”, pubblicata nel 1931. Successivamente è nella raccolta “Il sentimento del tempo” che Ungaretti approfondisce i temi della poesia ermetica affermatasi prima della seconda guerra mondiale, specialmente nella città di Firenze, suo centro nevralgico.

Il termine “ermetismo” viene coniato  dapprima di Francesco Flora e, successivamente, da Carlo Bo nella sua opera “Letteratura come vita”, nella quale vengono espressi le basi su cui si erge la poetica ermetica, che fa coincidere la poesia con la “vita”, facendola divenire espressione della realtà più nascosta e degli angoli più reconditi della mente umana, non rappresentando più pertanto un semplice mestiere o un abitudine, in netto contrasto con D’Annunzio . La letteratura coincide pertanto con l’io e mira a raggiungere la verità e la purezza di valori, rivolgendosi ad un ristretto numero di persone e facendo pertanto uso dell’analogia, mezzo attraverso il quale è possibile raggiungere realtà misteriose trascendendo i dati ricavati dall’esperienza.

La letteratura, intesa come vita, rappresenta un rifiuto completo della storia, in quanto gli ermetici aspirano a collocare le proprie opere al di fuori del tempo. Questo tendenza alienante rispetto alla storia si traduce anche sul piano lessicale in quanto, come già affermato in precedenza, gli autori tendono a fare uso di un linguaggio arduo e di difficile comprensione.

Sono due i grandi punti di riferimento che - sebbene non possano essere in tutto e per tutto inseriti nel canone ermetico - costituiscono alcuni esempi di stile e poetica: da un lato ricordiamo Giuseppe Ungaretti con la sua raccolta ”Il sentimento del tempo” nella quale vengono esplorati alcuni dei temi cari all’ermetismo; dall'altro Eugenio Montale con una raccolta intitolata “Le occasioni”. Umberto Saba, al contrario, è considerato solo formalmente un ermetico, in quanto le sue opere si collocano decisamente al di fuori di questa corrente.

Vittorio Sereni

Vittorio Sereni

Nato a Luino nel 1913 , compie gli studi medi a Brescia e nel 1933 si trasferisce a Milano , dove si laurea in Lettere con una tesi su Guido Gozzano . Qui partecipa alla vita culturale e si lega ai giovani intellettuali che si riuniscono intorno alla rivista “ Corrente” . Nel 1941 pubblica la prima raccolta di versi, Frontiera. Svolge l’attività di insegnante quando viene chiamato alle armi; è in Grecia e in Sicilia , dove viene catturato dagli Alleati nel 1943 e portato come prigioniero prima in Algeria poi in Marocco. A questa esperienza si riferisce in particolare il Diario d’Algeria . Le poesie successive sono riunite negli Strumenti umani (1965), che consacrano la statura del poeta . L’ultima raccolta è Stella variabile del 1982. Dopo la guerra ha ripreso l’insegnamento; per sei anni, dal 1952, si è occupato di pubblicità all’interno della Pirelli, diventando poi dirigente presso la Mondadori . E’ morto a Milano nel 1983 .

Sereni si può definire il rappresentante più autorevole di una tendenza poetica che ha radici lontane

(Porta e Parini) e che concepisce la poesia come un confronto diretto con la realtà . E’ una poesia che nasce dalle cose e non prima delle cose ; in questo senso non si appaga della parola , ma la investe di una forte tensione problematica , esprimendo un’esigenza di moralità che coinvolge lo scrittore sul piano dell’impegno critico, di una coscienza umana e civile. Nella prima raccolta di Sereni il legame con la realtà risulta invece interiorizzato e attenuato, per una discrezione e un pudore che ne circoscrivono l’espressione . Il suo monolinguismo non è estraneo a suggestioni ermetiche , anche se non si indentifica con esse. Nei versi di Frontiera il paesaggio è quello prealpino e lacustre , ma investito di un’inquietudine che si fa segno della precarietà di un mondo minacciato, rispetto al quale il poeta vuole tuttavia conservare una “ tenace e forse monotona e troppo umana fedeltà al tempo e alle circostanze vissute” . Il titolo indica appunto l’incertezza di una situazione di” confine “ , tanto da indurre Sereni a ristampare subito l’opera , come se l’incalzare dei tempi lo inducesse a tentare già una sorta di bilancio generazionale.

Il Diario d’Algeria riprende e accentua la componente diaristica , come aderenza a un vissuto che occorre accettare integralmente. Ne risulta uno dei libri più originali nati dall’esperienza della guerra . La chiusura individualistica , come retaggio dell’Ermetismo , si apre a forme di una più distesa comunicazione , in cui il rifiuto della storia è solo apparente; si tratta piuttosto di una integrale accettazione del proprio destino , che non consente evasioni o idealizzazioni . Anche in seguito il pessimismo dell’autore non rinuncia a un intervento critico nei confronti del presente , come necessità di una testimonianza ora commossa ora risentita .

La capacità di cogliere i mutamenti della società è documentata da un’altra raccolta, Gli strumenti umani, che affronta alcuni dei problemi fondamentali del dopoguerra. Nel rappresentare una realtà desolata e disgregata , Sereni mostra di saper rinnovare le sue risorse stilistiche , affiancando , alle soluzioni monolinguistiche , l’uso di una durezza discorsiva in cui il linguaggio si altera e si spezza , diventa faticoso e privo di ogni armonica cantabilità , in quanto trascrizione di una realtà frantumata e disgregata.

Mario Luzi

Mario Luzi

Mario Luzi nasce a Castello, in provincia di Firenze, nel 1914. Dopo aver conseguito la laurea in Letteratura francese, a Firenze si compie la sua formazione letteraria. Nel 1935 collabora al “Frontespizio” e pubblica “La barca”, il suo primo volumetto di versi. Luzi, successivamente, si trasferisce a Parma dove insegna in un liceo e diventa uno dei principali collaboratori di “Campo di Marte”, rivista dell’ermetismo fiorentino. Nel 1940 viene pubblicato “Avvento notturno”, considerato come un testo esemplare della nuova tendenza. Nel 1998 esce il volume che raccoglie tutta L’opera poetica; ma dell’anno successivo e già una nuova raccolta, “Sotto specie umana”. Mario Luzi fu anche autore di testi teatrali, sotto forma di poemetti drammatici, e fine traduttore. Egli muore a Firenze nel 2005.

Luzi definisce i versi giovanili del “La barca” come il sentire della giovinezza, in alcuni punti ancora fragile ed acerbo. Ma già qui è possibile cogliere motivi, soprattutto di contrasto che saranno presenti nella poesia successiva, come il contrasto fra tempo ed eternità, tra l’apparenza e l’essenza e fra la vita del soggetto opposta a quella del tutto. Nell’ansia metafisico-religiosa di domande senza risposta l’uso raffinato della parola colma il vuoto lasciato, ciò fa sì che la poesia sia l’unica realtà praticabile e proponibile. Questo sistema chiuso e compatto verrà modificato inevitabilmente dalla tragedia della guerra. Lo stesso Luzi definisce il componimento “Un brindisi” come prefigurazione del dramma della guerra, che mette a soqquadro il falso giardino di Armida. In “Quaderno gotico” c’è un momento di transizione per la poetica di Mario Luzi, ma l’amore, che potrebbe eliminare il contrasto fra il soggetto e il tutto, resta una speranza vana. Nelle raccolte successive del primo dopoguerra entra in crisi l’individualismo ermetico, il discorso è più aperto, meno cifrato e più comunicativo, inoltre la sintassi è vicina a quella del parlato; questo cambiamento è ben evidente in “Onore del vero”. L’ultima fase della poesia luziana, che ha inizio negli anni 60 con “Nel magma”, si confronta con la cosiddetta “società del benessere”, rivelando le incongruenze che sono al di sotto delle facili illusioni della realtà contemporanea. Conseguenza ne è una discorsività franta e spezzata che mette in luce l’aridità di un’esistenza ricca di incertezze e scarna di significato. Luzi rovescia, quindi, i presupposti della sua formazione ermetica, ma spostando l’attenzione su un diverso rapporto tra soggetto e realtà, non rinuncia alla sua idea di poesia come testimonianza di un vuoto profondo.

Eugenio Montale

Eugenio Montale

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896, frequenta le scuole tecniche sino al raggiungimento del diploma di ragioniere. Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale stringe rapporti con i poeti Angelo Barile e Camillo Sbarbaro.

Nel 1922 compare come poeta su “Primo tempo”, ma solo sul primo numero della rivista da lui fondata, “Il Baretti”. Pubblica successivamente il saggio “Stile e tradizione”, importante per capire i fondamenti della sua poesia, come ad esempio il suo rifiuto delle esperienze d’avanguardia.

Nel 1925 accadono diversi avvenimenti di rilievo nella biografia di Montale: esce la prima raccolta di versi, “Ossi di seppia”, e inoltre firma il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce.

Una volta trasferitosi a Firenze lavorerà come redattore nella casa editrice Bemoporad, e nel 2939 appare la sua seconda raccolta poetica “ Le occasioni” presso Enaudi. Nello stesso anno avvia un’intensa attività di traduttore  non solo di poesia, infatti collabora con altri scrittori al progetto dell’antologia Americana.

Nel 1948, trasferitosi a Milano, inizia l’attività di redattore presso il “Corriere della Sera”. A questa collaborazione si aggiungerà l’incarico di critico musicale per il “Corriere d’informazione”.

Dopo un lungo periodo di non produzione da parte dell’autore nel 71 escono i versi di Satura che segnano una svolta bello sviluppo della sua ricerca poetica. Nello stesso anno la produzione prosegue intensamente, dando luce alle raccolte Diario del ‘71 e del ‘72 e “Quaderno di quattro anni” nel 1977.

Montale riceve a tal punto una serie di riconoscimenti come letterato: nel 1975 gli viene consegnato il Premio Nobel per la letteratura, mentre nel 1967 viene nominato senatore a vita “per aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo letterario e artistico”. Si spegne a Milano il 12 settembre 1981.

Gli ossi di seppia

Montale, considerato il poeta centrale di tutta la poesia italiana dell'ultimo secolo, ha saputo, sin dalla raccolta d'esordio intitolata “gli Ossi di seppia” del 1925, sottolineare le tematiche principali della letteratura novecentesca, facendo uso di termini che poi sarebbero diventati canonici e convenzionali: egli affronta pertanto il disagio esistenziale, la crisi delle certezze fondamentali, l'assenza di verità ultime cui fare affidamento. I testi montaliani ricreano pertanto sia il paesaggio esterno contemplato dal poeta sia quel mondo interno che, quotidianamente, si confronta con quel "male di vivere" che proprio negli Ossi di seppia trova la sua principale espressione.

L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1925, viene successivamente rieditata nel 1928 con l’aggiunta di alcune poesie, che comunque non modificano il tono esistenzialista e filosoficamente "negativo" caratterizzante la prima edizione. La scelta di questo titolo peculiare, da parte del poeta, non è che l’espressione  di un rapporto di emerginazione nei confronti della realtà circostante (l’uomo, infatti, non si rapporta più con la natura in maniera simbiotica.)

Montale rifiuta inoltre  la tradizione romantico-decadente il cui principale esponente era stata la poesia dannunziana (rifiutandone l’abbandono sensuale e l’intonazione aulica e sublime) nonché quella della fusione tra l'io poetico e il mondo naturale. Egli guarda inoltre ai crepuscolari , in particolare alle opere di Gozzano , recuperando l’adozione di oggetti umili e di soluzioni prosastiche, pervase di ironia.

Uno dei temi centrali che percorre la raccolta “Ossi di Seppia” è Il paesaggio ligure da lui descritto in maniera arida e desolata, tanto da ricordare -per l’appunto- un osso di seppia, rappresentante i residui calcherei di quei molluschi che il mare deposita sulla riva e, di conseguenza, una condizione vitale impoverita ed arida.  Il sole è una presenza costante (così come il mare lo era stato per Ungaretti, ad esempio)  che secca tutto ciò che raggiunge coi suoi raggi; esso ha pertanto accezione negativa, a differenza della poesia dannunziana, in cui il sole è considerato il simbolo di pienezza vitale. Questa visione critica ed aspra del paesaggio naturale ed animale trova la sua espressione nel disagio esistenziale che attanaglia l’animo del poeta.

Quest’ultimo rinuncia al mestiere di poeta “vate”, in quanto “Ossi di seppia” esprime l’impossibilità da parte del poeta di trattare argomenti alti, riferendosi alla poesia come mezzo per spiegare la vita e il rapporto uomo-natura che aveva segnato gran parte della letteratura precedente, in quanto oramai la realtà non ha più una struttura unitaria ma, al contrario, appare incomprensibile. La poesia pertanto non rappresenta più “ispirazione irrazionale” e “illuminazione” attraverso la quale è possibile osservare il senso nascosto delle cose, come era accaduto per Ungaretti, bensì essa su limita ad esprimere l’aria condizione esistenziale dell’uomo, non essendo in grado di cogliere l’assoluto. Ne consegue un rifiuto del lirismo, della magia surreale del verso, che é conseguenza di quella condizione di “male di vivere” che si esprime nella scelta dell’autore di scegliere un paesaggio più arido, come già affermato in precedenza, e modellato attraverso un linguaggio poetico derivato dall’inquietudine interiore, ossia l’impossibilità da parte del poeta di provare sentimenti vivi e intensi (“Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso/sapore han miele e assenzio”). È tuttavia in questa indifferenza che giace l’unica via di salvezza dal “male di vivere” che avvolge gli abitanti del mondo nella loro interezza, compresi gli oggetti inanimati. La poetica degli “ossi” è infatti definita come poetica degli oggetti, i quali rappresentano l’espressione di concetti astratti. Tale “incontro” è necessario per trasferire una condizione esistenziale in alcune presenze concrete (“era il rivo strozzato”)  al fine di venir rappresentato tangibilmente. A differenza dell’analogia di cui facevano uso i simbolisti (che giocavano infatti sul piano dell’irrazionale) la poetica di Montale intraprende un rapporto razionale e diretto con il mondo, fondendo il mondo della poesia e quello del pensiero.

Questa condizione esistenziale inaridita e impoverita, che stringe l’umanità nella sua morsa senza lasciarle via di scampo, si proietta in un altro tema molto caro allo scrittore, ossia quello del “muro”: è esso un ostacolo impossibile da varcare, a causa del quale è pertanto impossibile per  l’uomo attingere a una pienezza vitale e a una verità ultima e certa. Tale “prigionia” si traduce nel continuo ripetersi di gesti e azioni meccaniche, nell’eterno girare del tempo su se stesso. Con una tale concezione dell’esistenza umana, Montale riprende uno dei temi più cari della letteratura novecentesca europea, ossia la crisi del soggetto e la perdita dell’identità individuale, insita nell’opera di Pirandello  e specialment nella “Coscienza di Zeno” di Svevo )

Lo stile prevalente delle poesie di Ossi non é che la riproduzione della visione del poeta in quanto la poesia stessa, essendo frutto dell’inaridimento esistenziale, non può che riprodurne l’aridità e la desolazione anche dal punto di vista formale. Come già citato in precedenza, infatti, Montale fa utilizzo di un linguaggio quotidiano, un lessico non aulico, una sintassi tendenzialmente prosastica (caratterizzata cioè da un tono altamente discorsivo, più vicino alla prosa che alla poesia.)

La prima raccolta Montaliana è considerata uno dei punti fermi e fondamentali della poesia novecentesca italiana, per via del suo carattere innovativo espresso nella profonda rielaborazione formale e contenutistica.

Gli “Ossi” si concludono con un auspicio, che un giorno l’anima del poeta possa liberarsi da quel “male di vivere” che la soffoca e la divide.

Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti 

Giuseppe Ungaretti legge I fiumi

Nacque nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, che rimarrà

nella memoria come un paesaggio fantastico che verrà

ripreso nei suoi versi: " Notte di Maggio" e "Ricordo

d'Africa". Nel 1912 si reca a Parigi dove frequenta i

corsi del Collège de France, e dove approfondisce lo

studio della poesia decadente e simbolista, a partire da

Baudelaire a Mallarmè; quest’ultimo aurore avrà per

lui una grandissima influenza. Nel 1914 fa la conoscenza di alcuni esponenti del gruppo futurista fiorentino grazie ai quali pubblica nel 1915 le sue prime poesie su "Lacerba". Sempre nel 1914 Ungaretti si reca in Italia per partecipare come volontario alla guerra, e quest’esperienza porterà alla creazione delle liriche che verranno poi pubblicate a Udine con il titolo "Il porto sepolto". Questi versi appariranno successivamente nel 1919 in "Allegria di naufragi"; entrambe le raccolte confluiscono nel 1931 nel volume "L'allegria". Nel 1921 si trasferisce a Roma, città in cui recupera il verso:  gli orrori della guerra lo portano a sviluppare una nuova concezione dell’esistenza, che viene definita come un breve lasso di tempo tra due nulla: prima della nascita e dopo la morte. Egli inizia a prendere le distanze dalle chiassose e violente manifestazioni della  poesia dannunziana e futurista, ripiegando sulla pacata riflessione morale sulla condizione umana e ritornando alle forme e modelli più sobri e composti, rifacendosi a Leopardi e Manzoni. Sempre a Roma aderirà al fascismo, convinto che la dittatura possa rafforzare la solidarietà nazionale. Qui vediamo anche che collabora ai più prestigiosi periodici italiani, oltre ad essere redattore di "Commerce" e condirettore di "Mesures", riviste di punta della cultura europea. Diventa uno dei più noti intellettuali per la nuova poesia; difatti darà vita ad una nuova corrente letteraria, l'ermetismo. Mentre egli ricopre la cattedra per Letteratura italiana contemporanea presso l'Università di Roma,  l'editore Mondadori pubblicherà le sue opere dal titolo "Vita d'un Uomo". Le vicende della Seconda guerra mondiale segneranno duramente il maturare di una nuova e dolorosa consapevolezza, dovuta specialmente ad  serie di lutti familiari. Questo caratterizza la prima raccolta  poetica del dopoguerra, tra cui  distinguiamo: "Il dolore", "Un grido e paesaggi" ecc.

Nel 1961 vede la luce il volume “Il Deserto e Dopo”, che viene pubblicata nel 1961 con il titolo “Vita d’Un Uomo”. Ungaretti muore nel 1970 ma, grazia alla fama delle sue poesie, nel 1974 viene pubblicato il volume degli scritti critici, che riprendono il titolo “Sigla Vita d’un Uomo”. 

L’Allegria

Quando Ungaretti comincia a riordinare le sue poesie, il suo intento si rivela  ben presto  quello di sottolineare il carattere autobiografico (ed è questo un collegamento con quella che è la poetica di Saba, in cui l’aspetto biografico è determinante) proponendo l’opera come una sorta di “ricerca del tempo perduto”.

È bene comunque precisare che l’aspetto autobiografico non va inteso come una semplice  narrazione che ripercorre la vita dell’autore, bensì essa fa riferimento innanzitutto alla concezione che l’autore ha dell’arte: la letteratura e la vita sono infatti strettamente connesse fra loro; La letteratura ricopre un ruolo privilegiato che assume quasi un valore religioso, la cui funzione è quella di svelare il senso nascosto delle cose.

Per Ungaretti, la poesia ha dunque il compito di illuminare e illustrare l’essenza della vita stessa e, al fine di comprendere al meglio questa funzione della poesia, può essere utile sottolineare le novità formali che caratterizzano la prima raccolta , ”il porto sepolto”, pubblicata  nel 1916. Se infatti le poesie pubblicate da Ungaretti sulla “Acerba” nel 1915 hanno ancora cadenze discorsive, le liriche delle raccolte “Il porto sepolto” e “l’allegria” (che successivamente confluiranno in parte in un’unica raccolta) assumono un andamento completamente diverso, che tende a escludere le componenti più propriamente realistiche tramite un’estrema riduzione della frase alle funzioni essenziali della sintassi e della parola, al fine di giungere all’essenza misteriosa e profonda dei contenuti.

Tale procedimento va oltre la simbologia e le metafore utilizzate dalla letteratura decadente e allo stesso tempo vuole distinguersi dal carattere meccanico dell’analogia futurista. Ungaretti sostiene che la letteratura dell’ottocento aveva cercato di conoscere il reale in modo analitico istituendo collegamenti chiari e immediatamente comprensibili; si tratta tuttavia  di una conoscenza lenta, faticosa, non capace di rivelare sotto gli aspetti immediati e superficiali della realtà la sua essenza profonda. Ai vecchi procedimenti Ungaretti contrappone il suo nuovo modo di fare poesia, che è “rapido”, che sa mettere in contatto immagini lontane, le quali apparentemente non hanno alcun rapporto tra loro e in ogni caso non esprimono un senso immediato ed evidente. Così facendo il poeta supera in un baleno la distanza che separa il mondo della realtà e della storia (La memoria) dal Mondo superiore e divino che gli rivela il senso delle cose innocenza. L’innovazione Ungarettiana è certo favorita dalla rivoluzione futurista delle parole in libertà, di cui tuttavia egli rifiuta il movimento caotico. La strada da percorrere era quella additata da simbolisti e soprattutto da Mallarmé nelle cui opere l’analogia si proponeva di cogliere il Valore evocativo della parola, isolandola nella sua purezza assoluta. Per Ungaretti il poeta è pertanto una sorta di sacerdote della parola, che sa cogliere i nessi segreti delle cose. Egli attribuisce alla poesia un significato magico, spingendola fino al limite estremo dell’inesprimibile. Il mistero della vita può soltanto essere illuminato a tratti, grazie alla forza di penetrazione intuitiva di cui si carica la parola poetica. Quest’ultima assume il valore di un’improvvisa e folgorante illuminazione attraverso cui il poeta riesce a raggiungere la totalità e la pienezza dell’essere. Il carattere isolato della poesia ha un riflesso sul piano formale:  Innanzitutto dal punto di vista della versificazione esso comporta la distruzione del verso tradizionale contribuendo a dare l’impressione di un dettato fatto di parti distaccate tra loro; anche la sintassi rifiuta le costruzioni complesse e si adegua nella sua elementare essenzialità, in quanto la strofa è spesso costruita da sole frasi principali e non è frequente la presenza delle subordinate. La parola viene fatta risuonare nella sua purezza, talvolta addirittura isolata, fino a farla coincidere con la misura del verso oltre ad ogni rapporto contingente alla realtà. Sul piano lessicale c’è infine da rivelare che la poesia di Ungaretti appartiene ad un sistema che ricorra rigorosamente mono linguistico, caratterizzato da una scelta di termini che tendono ad alleggerire il peso delle parole. L’opera “l’allegria” fu precedentemente pubblicata nel 1916 con il titolo “il porto sepolto e nel 1919 con il titolo “allegria di naufragi”. Il porto sepolto allude a ciò che rimane indecifrabile ed equivale così al segreto della poesia nascosto nel fondo di un abisso nel quale il poeta si immerge. Il secondo titolo, “allegria di naufragi”, costituisce un’espressione ossimori cara per primo luogo in una nota parla della esultanza di un attimo di un’allegria il secondo sta indicare proprio l’effetto distruttivo della morte. L’opera è suddivisa in cinque sezioni, la prima intitolata “ultime” perché essa è una raccolta dei testo del 1914 e 1915 ancora legati alla fase precedente. La seconda intitolata “il porto sepolto” e la terza “naufragi” rinviano a due poesie contenute in esse che diedero il titolo alle edizioni precedenti. I temi rendono evidente quella componente autobiografica di cui si è parlato. Si tratta di un autobiografia trasfigurata, di un’esperienza in cui un uomo incontra la verità, il senso profondo e ultimo della propria esistenza. Un gruppo di temi e immagini si lega all’infanzia che il poeta trascorse ad Alessandria d’Egitto: i temi del deserto e del miraggio, legati alla vicenda dell’emigrante compaiono,  ad esempio, nell’opera “In memoria”, opera in cui Ungaretti proietta la propria esperienza di uomo senza patria nel destino parallelo di un amico arabo morto suicida. Un momento decisivo di transizione è costituito dall’esperienza del fronte che offre ad Ungaretti spunti per alcune delle sue liriche più sofferte; la guerra lo costringe a vivere nel precario confine fra la vita e la morte. Nella versione definitiva dell’allegria, il poeta recupera alcuni testi precedenti dove si delinea un oscillazione tra essere e nulla, realtà e mistero. Significativo è il richiamo del celebre verso leopardiano dell’infinito (“ e il naufragar m’è dolce in questo mare” ) che si collega a quello formulato da  Ungaretti in uno dei versi di “Lindoro”  (“sino alla morte in balia del viaggio”.)

Il significato religioso è inoltre suggellato dalla lirica con una preghiera: un Tione che richiama la canzone di Petrarca: “Il naufragio concedimi signore/ di quel giovane giorno al primo grido“.

Sentimento del tempo

Scritta a partire dal 1919, le liriche presenti nella raccolta intitolata “Il Sentimento del tempo”  rappresentano un mutamento di prospettiva rispetto all’”Allegria”, in quanto appaiono come la seconda tappa del viaggio Ungarettiano o come “secondo tempo di esperienza umana”. Nell’allegria le singole liriche mirano a fissare l’istante in cui si manifesta il mistero della vita; il tempo è concepito come un’entità discontinua e come un insieme di attimi separati e distinti. Nel “sentimento del tempo” Ungaretti intende invece evidenziare un altro modo possibile di intendere il tempo: esso viene infatti sentito  come durata, come causa del mutare di tutte le cose, in un processo continuo di distruzione e rinascita. Lo scenario privilegiato in cui si collocano le liriche di questa raccolta è Roma.  Roma è innanzitutto il luogo della memoria, il ricordo degli antichi splendori è ancora presente nei vari edifici della città, ma la loro consunzione rende evidente come il trascorrere del tempo faccia perire ogni cosa. La memoria quindi permette di recuperare il passato, ma finisce per identificarlo nei tanti ruderi superstiti e nelle forme mutilate dei monumenti. L’altro aspetto che fa di Roma un luogo privilegiato è rappresentato dalle sue numerose opere barocche, infatti l’epoca barocca ebbe un senso acuto del trascorrere del tempo e di come “tutto passi sulla scena di questo mondo“. Su queste basi si sviluppa la poesia della metamorfosi del tempo, nell’incessante scorrere delle ore delle stagioni. Ungaretti ha dichiarato come la sua attenzione fosse volta ad osservare il paesaggio soprattutto paesaggi d’estate, che è la stagione a lui più congeniale. La sua pienezza vitale racchiude in sé i germi della secchezza della morte. Queste sono suggestioni che nell’autore agiscono anche a livello religioso: la vitaGenera nell’uomo una drammatica condizione di divisione tra “ infallibilità fantastica del facitore“ e la “precarietà della propria condizione “. C’è infine  un altro  aspetto per cui l’antichità romana diviene fonte di ispirazione; in numerose liriche fanno infatti la comparsa alcune divinità della mitologia greco romana, e loro voci fanno riemergere i fantasmi del passato, che servono a coprire la sensazione di vuoto che si prova sia di fronte all’arte barocca sia davanti al colosseo. La sezione centrale si intitola la fine di crono ed esemplifica  più direttamente gli intervenenti  dell’intera raccolta, secondo cui “la parabola dell’anno e quella del giorno sono forse eterne figure dell’armonia universale“. La novità essenziale del sentimento del tempo consiste nel recupero delle strutture sintattiche e delle forme metriche tradizionali. Alla tradizione il poeta si riallaccia esplicitamente attraverso una rilettura attenta e appassionata di Petrarca e Leopardi: i due poeti sono vicini anche in relazione alla riflessione del tempo. Leopardi sente la fine di una civiltà giunta al culmine della sua evoluzione mentre Petrarca si trova di fronte a un mondo da ripristinare attraverso la memoria dell’antico. Si comprende così il vero significato dell’opera d’allegria: una distruzione del verso non polemica è fine a se stessa ma condotta consapevolmente allo scopo di risentirlo come nuovo,  per poi ricomporlo e farlo rinascere a vita nuova come accade nel sentimento del tempo.

Il dolore

Nel 1947 Ungaretti pubblica “Il Dolore”. Questa raccolta si fa voce del tormento personale, cioè la morte del fratello e del figlio, e del tormento collettivo, in relazione alla guerra.

L’opera può essere definita come quella più vicina al Canzoniere di Petrarca, in quanto rappresenta una sorta di diario poetico, che ha un’immediata confessione autobiografica. L’assenza della persona fisica (“gli occhi ancora vivi, il volto già scomparso”) all’interno del Componimento è compensata da segni a cui si attribuisce la possibilità di proseguire un discorso che, nonostante il dolore (“ e t’amo, t’amo, ed è continui schianto”), si vuole mantenere in vita. La trasfigurazione del figlio in una luce di speranza religiosa diviene infatti simbolo d’innocenza.

Con i versi di “Roma occupata” e “I ricordi”, la tragedia individuale si unisce a quella dell’intera nazione. L’immagine della guerra danno la sensazione di uno sconvolgimento apocalittico in cui i toni biblici ed evangelici del linguaggio ripropongono il valore di una sete religiosa, a cui affidare le sorti di un’intera civiltà minacciata (“Non gridate più!”).

Umberto Saba

Umberto Saba

Umberto Saba - pseudonimo di Umberto Poli - nacque

a Trieste (città confine facente parte dell’Impero

austro-ungarico)  il 9 Marzo 1883. La madre apparteneva

ad una famiglia ebrea di piccoli commercianti, e lo

scrittore riuscì ad ottenere la cittadinanza italiana solo

per via del padre, Ugo Edoardo Poli, il quale discendeva

da una nobile famiglia veneziana. Alla nascita del

bambino, tuttavia, Poli - definito come un giovane “gaio e leggero”, privo di ogni interesse verso la vita familiare - abbandonò la madre del figlio alla nascita di quest’ultimo, e tale evento si può definire decisivo nella formazione poetica di Saba. Quest’ultimo trascorse la sua infanzia in compagnia di una contadina sveva che gli faceva da Balia, la quale tendeva a riversare su di lui tutto l’affetto e la tenerezza che aveva nutrito per il proprio figlio ormai morto.

L’infanzia dello scrittore, segnata dalle presenza delle due figure materne - quella amorevole della balia e quella austera della madre biologica - e dall’assenza di una figura paterna, fu difficile e malinconica e venne da lui rievocata più volte nel corso della sua produzione poetica.

Saba abbandonò presto gli studi scolastici, decidendo al contrario di dedicarvisi da autodidatta; fu così che scoprì la poesia, scorgendo in essa l’unica valvola di sfogo e di fuga dalla grigia realtà in cui si ritrovava costretto a vivere. Risalgono al 1900-1907 le “Poesie dell’adolescenza e giovanili”, che rappresentano quasi una sorta di iniziazione al percorso poetico.

Egli dimostrò sin da subito un forte interesse per Leopardi che venne tuttavia contrastato dalla madre, la quale lo spingeva a leggere i testi di scrittori più “impegnativi e costruttivi” come Parini, contrapposto al’”eccessivo pessimismo” leopardiano. Saba si dedicò al contempo allo studio di classici quali Ariosto, Dante, Tasso, Foscolo, Manzoni, sino a giungere ai contemporanei Pascoli e D’Annunzio. Intorno al 1906 lo scrittore si trasferì a Firenze, città in cui al tempo riviste come “la Voce” riscuotevano maggior successo: è infatti questo il periodo dell’età giolittiana, segnata dalla divisione degli intellettuali in più fazioni caratterizzate da visioni differenti: la rivista “la Voce”, ad esempio, esprimeva il volere di quegli giovani intellettuali che ritenevano che, al fine di rinnovare la letteratura italiana, ci fosse bisogno di un rinnovamento nella società stessa. Tale rivista rifiutò di pubblicare il saggio scritto da a Saba ed intitolato “Quello che resta da fare ai poeti” , mentre un altro critico, Slataper, rifiutò la sua prima raccolta di versi. Pertanto Saba, così come Svevo prima di lui, si ritrovò in una posizione marginale, in quanto le sue opere suscitarono scarso interesse tra il pubblico specialmente nel periodo di separazione fra le due guerre, in quanto la sua poesia semplice, caratterizzata dall’utilizzo della parola quotidiana, si contrapponeva sia ad Ungaretti che alla lirica del tempo. Egli si mostrava di gran lunga più legato alla cultura mitteleuropea - alla quale era riuscito ad avere accesso specialmente per via della posizione strategica di Trieste, rappresentante il centro nevralgico di una serie di culture e costumi diversi - piuttosto che a quella nazionale.

Saba intraprese comunque il servizio di leva tra il 1907 ed il 1908, i cui effetti si palesano nei “Versi militari”. Una volta fatto ritorno a Trieste, si sposò ed ebbe una figlia, trasferendosi nella periferia della città dove si dedicò alla stesura delle poesie della raccolta di “Casa e Campagna”, seguite da quelle di “Trieste e una donna”. In questo periodo (1911) Saba pubblicò la sua prima raccolta “Poesia”, seguita da “Con i miei occhi”. Nel momento della pubblicazione, lo scrittore si rifiutò di utilizzare il cognome del padre il cui abbandono gli aveva inflitto un tale dolore nel corso della sua vita, preferendo invece uno pseudonimo - Saba, per l’appunto - in omaggio alla nutrice slovena che faceva di nome Sabat.

All’avvento del primo conflitto mondiale, Nello scontro politico che vedeva contrapposti i neutralisti e gli interventisti, lo scrittore decise di schierarsi con questi ultimi, schierandosi addirittura con Mussolini al Popolo d’Italia, partecipando alla battaglia e riportando in seguito gli effetti della propria esperienza nelle “Poesie scritte durante la Guerra”, aprendo successivamente una libreria antiquaria a Trieste.

Nel 1921 Saba raccolse tutte le sue opere precedenti in un’unica raccolta, intitolata “Il Canzoniere” entro la quale sarebbero poi state racchiuse anche tutte le opere successive. Vittima di disturbi nervosi, Saba entrò in contatto con la psicoanalisi, intraprendendo - a partire del 1928 - un percorso di cura presso Edoardo Weiss, allievo di Freud. Tale evento si rivelò anch’esso fondamentale nella produzione dell’autore, al fine di “smascherare l’intimo vero”. Nel corso del secondo conflitto mondiale, Saba viene colpito dalle leggi razziali e cerca dapprima rifugio presso Ungaretti a Roma e, durante l’occupazione nazista, vive clandestinamente nella casa di Montale a Firenze. Nel dopoguerra egli venne finalmente riconosciuto come poeta dalla critica, ricevendo diversi premi e pubblicando “Storia e cronistoria del canzoniere” nel 1948. Gli ultimi anni della propria vita furono segnati da frequenti crisi depressive dovute anche alla malattia della moglie, la quale morì poco prima del marito. Quest’ultimo, spentosi nel 1954 a causa di un infarto,  non riuscì ad assistere alla pubblicazione del volume complessivo delle “Prose” (1964) del romanzo incompiuto, “Ernesto” (1975) narrante la storia di un adolescente in preda a turbamenti erotici.

IL CANZONIERE

“il Canzoniere” è considerata l’opera più celebre e innovativa di Umberto Saba, il cui significato può essere compreso appieno solamente attraverso una minuziosa analisi. La raccolta, scritta Originariamente in forma di manoscritto,  viene pubblicata per la prima volta nel 1921, per poi essere ampliata nel corso degli anni dapprima nel 1945 e successivamente nel 1948. L’ultima edizione presenta una suddivisione in sezioni, che a loro volta sono ripartite in tre volumi, il che ricorda in un certo senso la struttura tripartita della Divina Commedia dantesca o del Poema paradisiaco scritto da D’Annunzio. Sul piano tematico, i tre volumi rappresentano il percorso di vita dell’autore e, pertanto, i periodi relativi alla giovinezza, alla maturità e alla vecchiaia.

Ciò che Saba mette in primo piano, all’interno della sua opera, è l’elemento autobiografico, in quanto essa fa riferimento a precisi momenti e situazioni determinanti per la formulazione di quello che sarà poi il suo pensiero sulla visione dell’uomo. Il Canzoniere può essere quindi definita come un’opera unitaria e biografica e sono aspetti, questi, che portano Saba a considerarlo un vero e proprio romanzo in “Storia e cronistoria del Canzoniere”, opera in cui l’autore - parlando di se in terza persona - si riferisce al Canzoniere come “il libro più facile e più difficile di quanti ne sono usciti nella prima metà di questo secolo”; se, infatti, è vero da un lato che il linguaggio da lui utilizzato nel corso dell’opera sia di facile comprensione, dall’altro ogni componimento è inserito all’interno di una catena costituita da specifiche connessioni che fanno riferimento a significati ben più profondi.

È inoltre nel suo impianto unitario e “narrativo” che risiede Una delle caratteristiche maggiormente innovative dell’opera, che tanto si contrappone alle correnti poetiche del primo novecento, compreso l’ermetismo , le cui raccolte presentano componimenti indipendenti l’uno rispetto all’altro. I componimenti del canzoniere, infatti, oltre ad essere collegati dal punto di vista tematico, sono uniti tra di loro persino da quello sintattico, in quanto un componimento incomincia quasi come la prosecuzione del precedente.

Saba nell'opera si propone di raccontare il processo di ricerca di un semplice uomo, ossia il poeta stesso, verso la purificazione totale. È bene tuttavia precisare che le vicende esistenziali vissute dall’autore non rappresentano semplicemente il “racconto di una vita”,  bensì sono le fonti dalle quali scaturisce la riflessione sulla condizione generale dell’uomo, come già affermato in precedenza. Innanzitutto, ciò che Saba si propone di fare è di allontanarsi dalla “bella poesia”, dalla concezione estetizzante professata da D’Annunzio ; al contrario, il suo scopo è quello di creare una poesia “onesta”, scaturita dall’analisi approfondita del proprio regno interiore e della propria vicenda esistenziale. Perciò,  Se da un lato ciò lo spinge a rispettare la caratterizzazione e la realtà dei temi che va a trattare, che sono per l’appunto temi quotidiani (relativi alla vita di tutti i giorni, alla moglie, alla città), dall’altro il suo scopo è quello di attingere alla verità che “giace al fondo”, oltre le apparenze, al fine di far emergere gli angoli e i segreti più reconditi delle cose, il che non non ha tuttavia nulla a che vedere con il vagheggiamento di una realtà mistica, quasi metafisica, come accade invece in Ungaretti: la ricerca della verità di Saba avviene su un piano tutto terreno, tra le cose della vita mondana, il che si traduce anche nell’utilizzo di “trite parole”, quotidiane e consumate dall’uso, unite al linguaggio poetico-tradizionale. Tale ricerca riguarda pertanto l’uomo, e in particolare la sua condizione e le ragioni che si celano dietro il suo agire e che sono, infine, uguali per tutti gli uomini. Ed è questa la ragione per cui l’opera di Saba non è una semplice biografia, in quanto può assumere il ruolo di insegnamento per tutti.

Secondo Saba, l’unico modo di attingere al vero significato della realtà umana è attraverso lo studio della psicologia, pratica che si è rivelata fondamentale nel percorso dell’autore; è infatti attraverso tale disciplina che i desideri più inconsci e reconditi dell’animo vengono riportati alla luce, consentendo all’uomo di giungere alla “verità”, la cui scoperta può persino essere terapeutica. Pertanto, la struttura apparentemente semplice e lineare dell’opera in realtà cela gli echi di importanti influenze quali Freud, Nietzsche, il quale “tante verità intuì dell’anima umana”, smascherando le ipocrisie della morale.

Sul piano tematico, Il Canzoniere racconta la storia della sua famiglia, del suo dolore, nonché del modo dell’autore di rapportarsi con esso: la sua intenzione di cantare la “città” e la “donna” non risponde a una necessità di riproduzione del vissuto, bensì mostra il tentativo da parte dello scrittore di riappropriarsi della propria vita, per la quale nutre un amore profondo. Egli cerca inoltre di superare quell’isolamento dovuto al suo stato di depressione causato in gran parte dall’assenza del padre “assassino” a cui il figlio non deve assomigliare, dall’infanzia e la giovinezza infelici. La stessa città di Trieste è amata per la sua vivacità, ma è anche apprezzata dall’autore per i luoghi in cui egli può rifugiarsi ed essa, in riferimento alla sezione “Trieste e una donna”, è spesso legata alla figura femminile che era stata tanto determinante nel corso della sua vita: nei suoi componimenti si propone di effettuare una divisione tra la "Madre di gioia", rappresentata dalla balia, e quella di "Madre mesta", rappresentante la madre biologica. Nel primo volume Lina, sua moglie, verrà paragonata alla figura della madre, in quanto ella ha un carattere oscuro e severo quanto quello la genitrice, mentre nel volume secondo, in particolare nella raccolta Fanciulle, Saba darà alle varie donne che incontrerà l'attributo di donne-amanti o donne-fanciulle. La presenza femminile ritorna inoltre nella figura della figlia dell’autore, alla quale egli dedica poesie come “Favoletta alla mia bambina”, “Ritratto della mia bambina” e “cose leggere e vaganti”.

L’infanzia è, come se si è già detto, sicuramente uno dei periodi fondamentali della vita del poeta, in quanto ricca di implicazioni psicoanalitiche e che trova un posto ulteriore nella sezione de “Il piccolo Berto” dedicato al suo psicoanalista Edward Weiss, il medico a cui Saba si rivolge al fine di curare la propria nevrosi. È a partire dall’infanzia pertanto che si sviluppano quei temi che saranno centrali nel corso delle poesie del canzoniere, tra cui l’eros inteso come elemento della natura (ed è questo uno dei motivi per il quale la moglie verrà più volte paragonata ad animali del cortile, mansueti e che hanno atteggiamenti duri e severi, nella poesia “A mia Moglie”), nonché la scissione dell’io e della nevrosi che trovano la loro espressione nell’ultimo componimento intitolato “il Secondo congedo”, appartenente alla sezione di “Preludio e fughe”. Nell’ultima delle “Tre poesie alla mia balia”, il poeta rievoca tristemente  il momento del trauma infantile dovuto alla separazione dalla balia.

Questi eventi hanno segnato profondamente l’animo lacerato del poeta, il quale tenta tuttavia di risanare quella lacerazione rievocando i momenti felici che la vita è la poesia riescono ancora a donargli; uno dei testi più drammatici facenti parte della sezione de “il piccolo Berto” è intitolato proprio “Berto” e riporta il dialogo amato tra la figura del poeta ormai adulto, il quale ha ormai preso consapevolezza di se, e il “fantasma” del se stesso bambino. Il poeta sembra pertanto oscillare, nel corso della propria vita, tra momenti di gioia alternati a periodi di angoscia soffocante; entrambe le situazioni sono considerate dall’autore fondamentali per lo sviluppo individuale.

Sul piano formale, come già affermato in precedenza, Saba si distacca completamente da quelle che sono le avanguardie del proprio tempo, e pertanto anche dal linguaggio analogico, allusivo e di difficile interpretazione degli ermetici. La particolarità dei testi di Saba è infatti caratterizzata dalla loro chiarezza, dall’utilizzo di termini quotidiani e al contempo alti risalenti alla parole alte e scelte di Poeti come Dante e Petrarca, ed i versi, le forme metriche, e le rime sono quelli della tradizione. Il desiderio del poeta di esplorare l’inconscio umano si traduce inoltre in una sorta di drammatizzazione che prende atto specialmente in “Preludio e Fughe”, in cui il dialogo consente di dar voce a prospettive diverse e mutevoli rappresentanti la precarietà dell’equilibrio dell’animo umano. 

La Storia e Cronistoria del Canzoniere

Se da un lato il “Canzoniere” rappresenta centro di gravità attorno a cui ruota gran parte dell’attività di scrittura di Umberto Saba, è comunque rilevante quella serie di lavori in  prosa che vanno di pari passo con le opere poetiche. La “Storia e cronistoria del Canzoniere”, ad esempio, viene considerata come un’autobiografia critica, nella quale l’autore scrive in terza persona sotto lo pseudonimo di Giuseppe Carimandrei, difendendo  in più occasioni la propria opera contro le opinioni di critici e scrittori, illustrandole al contempo i significati essenziali e gli aspetti salienti, rilevando inoltre che tra le cause dell’”incomprensione” da parte del pubblico nei riguardi della propria opera aspetti come l’autobiografismo e le diseguaglianze formali che, se da un lato possono apparire come “difetti”, dall’altro costituiscono i punti forti dell’opera, in quanto espressione della capacità di Saba di spingersi oltre le apparenze al fine di far emergere significati nascosti, facendo in un senso riferimento alla corrente simbolista sviluppatasi precedentemente in Francia.

 Le Scorciatoie

Nell’opera “Le Scorciatoie”, Saba si propone d affrontare diversi temi che spaziano dalla cultura alla politica sino alla società sconvolta dal dopoguerra. È infatti attraverso l’utilizzo di una prosa estremamente sintetica ed ellittica, segnata da numerosi punti di interpunzione, che l’autore si permette di indagare sui temi storico e morale, facendo luce sulle figure delle “vittime” e dei “carnefici” ; tra questi ultimi egli comprende sia i nazisti ormai sconfitti, simbolo del male assoluto, che i falsi difensori della democrazia, ossia coloro che ritengono di poter difendere i fatti solamente attraverso l’utilizzo di parole, quando sul piano attivo non fanno che utilizzare il proprio potere economico e politico al fine di diffamare il diverso, che è un tema spaventosamente attuale.

In quest’opera ritornano gli echi di dell’influenza della psicoanalisi freudiana, che guida sempre le osservazioni dell’autore, anche nel momento in cui quest’ultimo tocca aspetti un po’ marginali della realtà. Una delle capacità dimostrate da Saba sta nel fatto che -  in linea con quanto detto in precedenza –  egli sia capace di rendere le categorie psicanalitiche in un linguaggio piano, chiaro e privo di tecnicismi. Nell’ultimo testo intitolato “La genealogia di Scorciatoie”, Nietzsche e Freud vengono definiti dallo scrittore come “maestri di un difficile insegnamento morale”, in base al quale “non si viene a patti colla verità”.

Raccontini

I Raccontini di Saba altro non sono che piccoli testi in prosa contenenti brevi momenti dell’esistenza nel corso dei quali vengono messe in evidenza le ragioni autobiografiche, che al contempo vanno ad abbracciare la condizione generale dell’uomo.

Ernesto

Ernesto è l’ultimo romanzo realizzato da Umberto Saba e rimasto incompiuto. Esso fu scritto nel 1953, per poi essere pubblicato successivamente nel 1975; come tutte le opere precedenti, anche quest’ultima opera fa riferimento a sprazzi di vita dello scrittore. Il protagonista è difatto un giovane che soffre a causa dell’abbandono del padre e della poca comunicazione con la figura materna, austera e severa, alla quale si ribella più volte in maniera infantile e ingenua. Costretto ad intraprendere un lavoro che non lo soddisfa - ed è questo un rimando ai personaggi di Svevo, infelici della loro vita - trova il modo di farsi licenziare ed intraprende una relazione omoerotica, costretto tuttavia a nasconderla a causa dei pregiudizi del tempo. Inevitabilmente il rapporto giunge ad una fine, e a tal punto il giovane trova conforto in una prostituta che ricopre il ruolo di figura materna, quasi nell’eco di quello che era stata la balia per Saba. La storia è pertanto il percorso di formazione di un giovane che per la prima volta entra in contatto con il mondo della lussuria, con una vita spericolata al di fuori delle regole imposte dalla società, e la cui scelta si traduce - sul piano formale - nell’utilizzo di espressioni dialettali e del discorso diretto.

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Nato a Roma nel 1907, Alberto Moravia fu uno dei principali intellettuali ad assumere un aspetto fortemente critico nei confronti del mondo borghese da cui proveniva e dal quale si isolò a causa di una malattia, la tubercolosi ossea, che lo obbligò a lunghi soggiorni in varie cliniche nelle quali iniziò la sua formazione da autodidatta attraverso vaste letture.

Egli iniziò la sua carriera da scrittore già nel 1929  con un romanzo intitolato “ gli indifferenti “ alla quale affiancò la vita da giornalista che gli permise di viaggiare in Europa e in America in quanto, per le sue prese di posizioni antifasciste, divenne sospetto al regime. Venne eletto al parlamento europeo come indipendente nelle liste del partito comunista ma ne rifiutò la militanza traendo dall’ideologia marxista solo spunti critici.

Nel 1941 sposò la scrittrice Elsa Morante da cui si separò senza mai divorziare e continuò la sua copiosa produzione da letterato e da giornalista; fondò insieme ad Alberto Carocci  la rivista “Nuovi Argomenti” e morì a Roma nel 1990.

PRODUZIONE

Il suo primo romanzo del 1929, “Gli indifferenti”, è un’opera in cui egli dipinge il disfacimento dei valori, l’ipocrisia, la menzogna e la chiusura  della società borghese attraverso il personaggio principale, Michele, che dinanzi alla negatività che lo circonda non riesce ad agire e si isola perdendosi nella sua indifferenza  e vagheggiando un mondo passato in cui era possibile avere un rapporto diretto con la realtà. Nel romanzo sono presenti i due nuclei tematici a cui Moravia  farà spesso riferimento in molte altre opere: il sesso e il denaro, visti come il perno attorno al quale si concentra la vita umana.

Il  secondo romanzo,” Le ambizioni sbagliate”, si avvicina al giallo e al romanzo psicologico a differenza del primo che presenta ancora una struttura naturalistica ottocentesca al quale si  affiancano raccolte di racconti come “La bella vita”, “L’imbroglio” e “I sogni del pigro”.

La sua produzione continua nel dopoguerra con il  racconto lungo “Agostino” che narra la storia di un ragazzo tredicenne il quale scopre alcuni aspetti della vita a lui ancora ignoti: l’esistenza delle classi sociali  e il sesso. In seguito a questa scoperta, il protagonista  si distacca dal suo  ambiente provando verso di esso un senso di fastidio e inizia a vagheggiare un paese innocente in cui “tutte  queste brutte cose” non esistano. Questi temi sono ripresi in un altro romanzo “La disubbidienza” ma soprattutto nella “Noia” che risulta essere una delle opere più significative dello scrittore. Il protagonista, Dino, è un pittore che non riesce più a dipingere perché incapace di stabilire un contatto diretto con la realtà che gli appare assurda e insensata;è proprio questa la noia al quale egli si abbandona limitandosi ad una pura contemplazione dell’esistente, soluzione che adotta anche il protagonista del romanzo successivo “L’attenzione”.

Del clima postbellico fanno parte anche alcune opere che presentano un carattere diverso in quanto sono influenzate dalla scoperta del proletariato che lo scrittore riteneva un’alternativa alla malattia della classe borghese; esse sono “la romana”, “la ciociara”, i racconti romani” e “nuovi racconti romani”. In queste opere è sempre presente però la centralità del mondo borghese e l’accettazione del puro esistere naturale in quanto il proletariato, e quindi il popolo, è sempre vagheggiato come antitesi alla “malattia” del mondo borghese che verrà criticato anche nei romanzi successivi “disprezzo” e “conformista”.

Nelle ultime opere i temi di Moravia rimangono invariati, ma la stesura perde quella forza corrosiva che era tipica delle sue opere precedenti; esempi sono “io e lui” in cui è rappresentato in chiave grottesca il problema del sesso, “la vita interiore” che tratta del problema del terrorismo, “la donna leopardo” e “il viaggio a Roma” il quale è incentrato sul complesso edipico nel rapporto tra il protagonista e la madre.

L’ autore si dedicò attivamente anche al teatro fondando la compagnia “il porcospino” che durò solo due anni ma ha portato alla luce alcuni testi drammatici come “il Dio kurt”, “la vita è gioco” e “l’angelo dell’informazione”, e a viaggi nel  terzo mondo da cui sono nati vari volumi tra cui “ un’idea dell’india”, “ la rivoluzione culturale in Cina ” e  “ a quale tribù appartieni”.

 

Alberto Moravia

Alberto Moravia
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